No, non si può perdere la memoria

No, non si può perdere la memoria

In un giorno come questo può accadere di essere banali se non addirittura ripetitivi e vuoti.

E’ un rischio che si corre annualmente, ma che, proprio per questa ragione, ci deve spingere a chiedere quanto ci sentiamo parte di un rito di memoria collettiva che, tuttavia, non vuole e non può essere vissuto solo così.

No, il “giorno della memoria” non è un rito, non è una semplice celebrazione collettiva, ne è un pegno da pagare, come qualcuno vorrebbe darci ad intendere, rispetto ai sensi di colpa per ciò che è stato compiuto nel secolo scorso, anche da italiani.

Siamo abbastanza consapevoli ormai, perché di questo ne abbiamo testimonianza continua, che la perdita di memoria è uno dei drammi collettivi del nostro Paese, ma anche di buona parte del mondo occidentale e dell’Europa stessa.

Nei nostri mondi, tuttavia, è in atto ormai da tempo un percorso di relativizzazione, di sottovalutazione e di banalizzazione di quelli che sono i comportamenti e modi di pensare che stanno alla base dell’intolleranza e dei semi d’odio che portano alla negazione dell’altro in quanto persona ed essere umano.

C’è un generale “impazzimento”, definiamolo così, intorno a noi che non è solo frutto dei due anni di pandemia, ma che ha radici lontane e attraversa tutti i mondi, le culture e le persone. Quando le presunte “ragioni” sono gridate, urlate in faccia all’altro, quando la propria fede, politica o religiosa diventa una clava da picchiare in testa all’altro, quando la politica viene ridotta a “chiacchiera da bar” e le sue argomentazioni, per calcolo elettorale, scadono nel giustificare i bassi istinti del popolo, quando il popolo non è più “buon senso”, ma “senso comune”, quando chi informa non cerca la verità, ma solo più consumatori che acquistino un prodotto, quando, chi dovrebbe educare non educa più, quando l’indignazione è sostituita dall’indifferenza, allora abbiamo l’intolleranza e il diverso, chiunque esso sia, diviene un nemico, un pericolo, un untore di chissà quale pandemia. Allora, quando si verifica tutto questo e spesso si è verificato nella nostra storia umana, si è pronti ad accettare anche quei “falsi profeti” che negano che l’altro è un essere umano.

Forse ha qualche ragione chi ha scritto che Dio è morto ad Auschwitz. E forse si sono toccate le corde giuste quando Hannah Arendt ci ha sbattuto in faccia la dura verità della “banalità del male” e la tragica normalità di Eichmann, l’architetto della “soluzione finale”, uomo di una spaventosa normalità, ma, malgrado questo, trasformato dal “potere” nello strumento di morte per milioni di esseri umani.

Edith Bruck ha detto di recente “….ai ragazzi servono difese per il futuro. Quando non ci saranno più testimoni toccherà agli storici e agli insegnanti. Non sarà facile perché si stanno già allungando le ombre del fascismo, dell’antisemitismo, del razzismo”.

Ecco, allora, perché è importante ricordare. E’ importante essere responsabili. E’ importante pesare le parole e i possibile effetti di queste. Così come è importante educare ai valori della tolleranza e del rispetto verso l’altro, di colui che sta accanto a noi e di chi è lontano da noi. La giornata della memoria non è un rito collettivo, non è una catarsi, è la presa di coscienza che la “spaventosa normalità” della “banalità del male” si insinua anche nei nostri mondi e tra di noi e può sempre ritornare se non c’è la capacità di vigilare e produrre anticorpi.

Accanto ai tanti che allora voltarono la faccia dall’altra parte, accanto a coloro che non tornarono dai lager nazisti, accanto a loro ci sono anche però i “giusti tra le nazioni”, ci sono coloro che seppero dire dei no e si misero in gioco. E’ anche ai tanti Calogero Marrone che ci furono, per citarne uno a noi vicino, che dobbiamo la “giornata della memoria”, perché al male si può sempre dire dei no.

Roberto Molinari

Assessore ai Servizi Sociali

Comune di Varese

( pubblicato da “La Prealpina” del 25 gennaio 2022 )